I
Da Mussolini alla Repubblica

 

Badoglio, champagne in ghiacciaia

Il telefono tacque per tutto il pomeriggio. Il 25 luglio 1943, una domenica, faceva molto caldo e Vittorio Emanuele Orlando si era ritirato nella sua casa di campagna a Campiglioni, in provincia di Arezzo. Aveva 83 anni e, all’attivo, un capitolo della storia d’Italia: raccolto il paese a pezzi dopo Caporetto, lo aveva condotto a Vittorio Veneto. Si era dimesso dopo che la Conferenza di Parigi del 1919 ci aveva strappato Fiume e la Dalmazia, e aveva atteso pazientemente che finisse la lunga avventura di Mussolini. Ora che il Gran Consiglio del fascismo aveva dato il benservito al Duce, Orlando si aspettava che Vittorio Emanuele III lo chiamasse, come aveva fatto nell’ottobre 1917, per salvare la patria. Ma, a Campiglioni, il telefono non squillò.

Squillò, invece, nella casa romana di Pietro Badoglio mentre il generale stava giocando a bridge con amici e famigliari. Una bottiglia di champagne in ghiacciaia tradiva l’ottimismo del padrone di casa, premiato a metà pomeriggio da una telefonata del duca Pietro Acquarone. Il ministro della Real Casa lo convocava all’istante a villa Savoia da dove, pochi minuti prima, Benito Mussolini era uscito su un’ambulanza scortato dal capitano dei carabinieri Paolo Vigneri. «Non andare a villa Savoia. Ti arresteranno» aveva detto Rachele Mussolini al marito mentre gli sceglieva l’abito borghese richiesto dal re. Lo stesso suggerimento era venuto da Claretta Petacci. Nelle memorie pubblicate nell’autunno del 2004 (Il Duce mio padre), Romano Mussolini afferma di non capire tuttora perché il capo del fascismo sia andato incontro al suo tragico destino. Avrebbe potuto far arrestare Dino Grandi e gli altri del Gran Consiglio premendo un pulsante bloccaporte nascosto sotto la scrivania. Farsi difendere dai tedeschi. O, ancora meglio, raggiungere la Spagna dove Franco l’avrebbe protetto. Andò invece dal re per sentirsi dire: «Ormai l’uomo della situazione è il maresciallo Badoglio». Cinque ore dopo l’arresto di Mussolini, precisamente alle 22.45, Titta Arista, uno speaker segaligno, con baffetti, orecchie a sventola e doppiopetto d’ordinanza, annunciava al giornale radio con l’inconfondibile impostazione littoria della voce che il cavalier Benito Mussolini si era dimesso ed era stato sostituito dal maresciallo d’Italia Pietro Badoglio a cui, subito dopo, cedette rispettosamente il microfono.

Al termine del suo comunicato Badoglio lesse quella frase sibillina che avrebbe provocato tremendi equivoci e innumerevoli lutti: «La guerra continua». Da quale parte della barricata, purtroppo non si capiva. Ascoltando la radio, Vittorio Emanuele Orlando restò di sale. Quel comunicato l’aveva scritto lui, ma nessuno dal Quirinale si era preso il disturbo di comunicargli che nel frattempo erano cambiati sia il lettore sia il nuovo capo del governo. Visto l’esito sciagurato dell’ultima frase, Orlando se ne restò nell’ombra e solo alcuni giorni dopo si spinse a confidare al ministro romeno Comnene che «la formula usata da Badoglio era assurda». Passarono diversi anni prima che il vecchio statista fosse costretto a riappropriarsi di quel che era suo e pasticciò dicendo che aveva scritto «la guerra continua» temendo che il fascismo non fosse morto e, in ogni caso, per dire che l’Italia doveva abbandonare entro un paio di giorni l’alleanza con i tedeschi. La commedia finì in tragedia, ma intanto l’autore si era italianamente defilato.

Giulio Andreotti seppe in anticipo che il re avrebbe bidonato Orlando e scelto Badoglio. «Fui informato» mi racconta «da Claudio Cutolo, funzionario dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno che intercettava le telefonate. Era iscritto alla Fuci, la federazione degli universitari cattolici di cui ero presidente. [Su indicazione di Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, nel 1942 Andreotti aveva sostituito Aldo Moro, partito per il servizio militare.] “Possiamo vederci un momento?” mi chiese Cutolo. Ci incontrammo a piazza Fiume, a metà strada tra casa mia, allora sulla Salaria, e il suo ufficio. “Il re ha fatto arrestare Mussolini e lo ha sostituito con Badoglio” mi disse. Dopo il bombardamento di Roma del 19 luglio, si immaginava che la crisi del regime avrebbe avuto un’accelerazione, ma l’ipotesi più accreditata era che Mussolini fosse sostituito da Dino Grandi: nell’Italia prefascista c’era la consuetudine che chi faceva cadere un governo riceveva l’incarico di formare il nuovo. Il Gran Consiglio del fascismo aveva assunto un ruolo istituzionale e Grandi firmò l’ordine del giorno decisivo per la caduta del Duce.»

In quelle ore c’era una gran confusione. Secondo Andreotti, favorevole alla soluzione Grandi era Pietro Acquarone, il più stretto collaboratore del re. E lo stesso Churchill non avrebbe visto male un governo di transizione guidato dall’uomo che era stato brillante ambasciatore a Londra negli anni in cui i rapporti tra il governo britannico e Mussolini erano di reciproco rispetto. «Gli inglesi» mi racconta Andreotti «volevano che la Spagna non toccasse Gibilterra. E Grandi aveva fatto da mediatore con Franco.»

Dino Grandi era uno dei personaggi più intelligenti del fascismo e un diplomatico molto abile, tanto che Galeazzo Ciano, genero del Duce e successore di Grandi al ministero degli Esteri, lo considerava l’unico che avrebbe potuto scalzarlo dal ruolo di delfino di Mussolini e cercò invano di stroncarne la carriera. Grandi non solo sconsigliò Mussolini dall’entrare in guerra ma, dopo i primi rovesci, cercò la strada per uscirne, anche sacrificando il Duce. Il 24 luglio 1943, nella riunione del Gran Consiglio, presentò un ordine del giorno in cui chiedeva che venisse restituito al re il comando delle forze armate. Approvato con 19 voti su 28, il documento segnò la caduta di Mussolini. Grandi dovette fuggire dall’Italia per sottrarsi alla vendetta del Duce, che lo fece condannare a morte nel processo celebrato a Verona nel 1944 durante la Repubblica di Salò. «Lo avrei incontrato nel 1950 a San Paolo del Brasile» mi racconta Andreotti. «Durante la mia visita Grandi faceva gli onori di casa, ammirato dagli antifascisti, che gli riconoscevano il merito di aver fatto cadere il Duce, e considerato un traditore dai reduci di Salò, che non gli rivolgevano la parola.»

Naturalmente, anche Alcide De Gasperi era informato in anticipo delle decisioni prese dal re il 25 luglio: Andreotti dice che era in stretti rapporti con Ivanoe Bonomi, debole presidente del Consiglio nel 1921-22, riportato al governo provvisorio dal Comitato di liberazione nazionale nel 1944. Pure De Gasperi riteneva che Badoglio non fosse la persona giusta per succedere a Mussolini. «Aveva fatto la guerra d’Etiopia» osserva il senatore «era diventato viceré e duca di Addis Abeba. Gli inglesi erano legati al negus e una soluzione del genere non poteva entusiasmarli.» Ma il generale era abilissimo a trasformare le sconfitte in vittorie: responsabile delle disfatte del Tolmino e della Bainsizza, durante la prima guerra mondiale, era stato promosso vicecapo di Stato maggiore dell’esercito. Costretto alle dimissioni da capo di Stato maggiore nel 1940 dopo le sconfitte sul fronte greco, a 72 anni era pronto a ricominciare. «Si pensò anche a un altro vecchio ufficiale, il generale Enrico Caviglia, che aveva condotto l’VIII Armata a Vittorio Veneto» mi racconta Andreotti. «Ma alla fine la spuntò Badoglio. Perché? La massoneria, si disse. Sia il re sia Badoglio erano massoni…»

Poiché anche i drammi possono avere risvolti comici, arrivato al Quirinale Badoglio si vide consegnare dal re il messaggio da leggere alla radio. Chi l’aveva scritto? «Orlando» conferma Andreotti. «Era certo che in un paio di giorni ogni cosa sarebbe stata chiarita…»

 

«Non ha niente di meglio da fare?» chiese De Gasperi

Andreotti aveva conosciuto De Gasperi nella primavera del 1941 e l’approccio non era stato dei migliori. Stava preparando una tesi in diritto della navigazione sulla marina pontificia e nella Biblioteca vaticana incrociava spesso un austero impiegato con gli occhiali che un giorno lo apostrofò: «Non ha niente di meglio da fare che studiare questa roba?». Andreotti rispose piccato: «Scusi, ma a lei che gliene importa?». «Io non sapevo chi fosse quel signore» mi racconta. «Lui sapeva invece che dirigevo il giornale degli universitari cattolici.» La cosa finì lì. Pochi giorni dopo, però, Giuseppe Spataro (che era stato presidente della Fuci all’inizio degli anni Venti) convocò il giovane studente a casa sua, dove ad attenderlo c’era l’austero impiegato vaticano. «Stiamo costituendo la Democrazia cristiana» gli disse De Gasperi in modo spiccio. «Non perdere tempo e occupati di cose meno bizzarre.» Andreotti mollò la marina pontificia e compilò un’agile tesi sulla personalità del delinquente nel diritto canonico. «Mi ci volle meno» ammette. Ma, soprattutto, scoprì la politica. Allora, infatti, pur non amando affatto il regime, i giovani cattolici non si occupavano di politica.

«Non ce ne parlava nessuno» mi dice Andreotti. «Nessuno ci aveva raccontato fino in fondo la tragedia dell’Aventino [Dopo il delitto Matteotti, il 27 giugno 1924 i deputati antifascisti, guidati da Giovanni Amendola, abbandonarono l’aula parlamentare imitando la secessione della plebe romana che, nel 494 a.C., si ritirò sul colle Aventino e fu poi ricondotta alla ragione da Menenio Agrippa. Speravano così di far cadere il governo, ma il re rinnovò la fiducia a Mussolini il quale, con il discorso del 3 gennaio 1925, inaugurò l’inizio del regime fascista vero e proprio, e l’anno successivo dichiarò decaduti i deputati aventiniani.] Né a scuola né alla Fuci si parlava dello scioglimento dei partiti. Veniva esercitata una certa critica del sistema corporativo, ma niente di più. Quando raccontai l’incontro con De Gasperi ad Aldo Moro, lo trovai contrario all’idea che ci impegnassimo in politica. “La nostra” mi disse “è una vocazione di studio.” Restò su questa posizione di disimpegno anche nel periodo della nostra attività clandestina. Nel 1946, solo l’intervento dell’arcivescovo di Bari lo convinse a candidarsi alla Costituente.»

Prima dell’8 settembre 1943 l’attività clandestina dei vecchi popolari consisteva prevalentemente nella pubblicazione e nella diffusione del «Popolo». I pochi membri della redazione si ritrovavano in casa di Giovanni Sangiorgi e di Guido Gonella, che abitava in Vaticano ed era redattore di politica estera all’«Osservatore romano». (Arrestato per antifascismo nel 1939 e rimesso in libertà per l’intervento della Santa Sede, Gonella sarebbe stato con De Gasperi uno dei fondatori della Dc.) Questo impegno si intensificò durante l’occupazione tedesca di Roma. Andreotti era direttore di «Azione fucina», il giornale degli universitari cattolici, che aveva libertà di diffusione.

«Ci sembrò un’iniziativa molto astuta trasferire alla tipografia clandestina del “Popolo” il piombo che serviva alla stampa del nostro giornale. Ma i tedeschi si accorsero subito che i caratteri erano identici e il loro ambasciatore pregò Montini di invitarci a non lasciare le nostre impronte digitali sul luogo del misfatto. A differenza dell’ambasciatore presso il Quirinale, quello in Vaticano non era un fanatico di partito.»

Negli anni Trenta, quando era assistente ecclesiastico della Fuci, Giovanni Battista Montini si era preoccupato soprattutto di rafforzare la coscienza civile degli universitari cattolici affinché non si compromettessero con il regime. Nominato nel 1937 da Pio XII sostituto della segreteria di Stato (ruolo chiave per i rapporti di politica interna), all’inizio degli anni Quaranta Montini notò il giovane Andreotti e – come ricorda il senatore – fu lui nel maggio 1947 a esortare De Gasperi perché lo nominasse sottosegretario alla presidenza del Consiglio, lasciando di stucco un’intera schiera di vecchi popolari che affollavano l’anticamera politica della nuova Italia.

Montini aveva una buona intesa anche con Maria José di Savoia, moglie del principe Umberto, e con lei – tramite Gonella – studiò l’ipotesi, presto tramontata, di una pace separata dell’Italia. La principessa aveva rapporti costanti con molti antifascisti e con il capo della polizia fascista Carmine Senise, il quale, dopo essere stato rimosso dall’incarico, prese parte al colpo di Stato contro Mussolini, ma già prima del 25 luglio aveva dato una mano ai politici cattolici che si muovevano nella clandestinità. «Il 19 marzo 1943» ricorda Andreotti «con il pretesto della festività di San Giuseppe arrivarono a Roma parecchi ex deputati del Partito popolare e Senise li coprì.»

 

Quando la sinistra scriveva per il Duce

La preoccupazione di Montini di non far compromettere i cattolici con il regime e di rafforzarne l’identità culturale aveva una ragione ben precisa. Il consenso a Mussolini, che diminuì solo quando le sorti della guerra volsero al peggio, aveva acquisito dimensioni epidemiche presso gli intellettuali. Nel 1931, dei 1250 professori titolari di cattedra universitaria soltanto 12 rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo e persero l’insegnamento. Benedetto Croce, faro della cultura liberale italiana, dopo aver sostenuto Mussolini all’inizio dell’avventura fascista criticò il regime, ma la sua piena libertà di movimento e di scrittura servì da alibi al Duce per nascondere la persecuzione di tanti antifascisti. Per la sua rivista letteraria «Primato» – una delle più importanti dell’intero Ventennio – Giuseppe Bottai, ministro dell’Educazione nazionale (sua la riforma della scuola media unica) e uomo tra i più intelligenti del regime che contribuì ad abbattere, benché condividesse la politica razziale del Duce poté contare, tra il 1940 e il 1943, su gran parte delle firme più affermate e promettenti del tempo: Giorgio Vecchietti (condirettore), Corrado Alvaro, Cesare Pavese, Nicola Abbagnano, Giulio Carlo Argan, Carlo Emilio Gadda, Giuseppe Dessì, Dino Buzzati, Eugenio Montale, Enrico Emanuelli, Salvatore Quasimodo, Piero Bargellini, Vitaliano Brancati, Giuseppe Titta Rosa, Giovanni Comisso, Riccardo Bacchelli, Galvano Della Volpe, Francesco Flora, Alessandro Bonsanti, Emilio Cecchi, Arrigo Benedetti, Mario Alicata, Bonaventura Tecchi, Nino Valeri, Enzo Carli, Romano Bilenchi, Bruno Migliorini, Pier Maria Pasinetti, Vittorio G. Rossi, Alfonso Gatto, Luigi Chiarini, Gianfranco Contini, Giuseppe Ungaretti, Sergio Solmi, Carlo Muscetta, Carlo Betocchi, Mario Luzi, Vasco Pratolini, Walter Binni, Cesare Angelini, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Paolo Monelli, Ugo Spirito, Enrico Falqui, Giorgio Vigolo, Manara Valgimigli, Cesare Zavattini, Giaime Pintor («Per il nazionalsocialismo tradizione è una somma di valori presi alla storia del popolo, elementi essenziali nell’anima della razza»); su musicisti come Luigi Dallapiccola e Gianandrea Gavazzeni, su artisti come Giovanni Fattori, Giorgio Morandi, Giacomo Manzù, Renato Guttuso (entusiasta una sua recensione su una mostra degli squadristi), Orfeo Tamburi, Mino Maccari, Amerigo Bartoli, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Domenico Cantatore, Mario Mafai, Pericle Fazzini. Norberto Bobbio si raccomandava al Duce per ottenere una cattedra e Alberto Moravia gli chiedeva protezione. Il giovane Giorgio Bocca difendeva la politica razziale e il giovanissimo Giovanni Spadolini non faceva mancare il suo appoggio al regime.

Poco dopo la caduta del fascismo la maggior parte di costoro passò nelle file dei partiti di sinistra, soprattutto nel Pci. Alcuni fecero la Resistenza, altri pagarono di persona: come Alicata, che scontò nove mesi di prigione fascista, e – soprattutto – come Pintor, ucciso da una mina durante un’azione partigiana. Questa massiccia migrazione degli intellettuali fascisti nei ranghi del Pci non deve meravigliare più di tanto. A parte una scontata spinta opportunistica, Togliatti è stato sempre attentissimo a non rompere con la sinistra fascista. Come ricorda Paolo Buchignani in Fascisti rossi, nel 1936 – durante il periodo del massimo consenso degli italiani al regime – il Pci clandestino sottoscriveva il programma originario del Partito fascista: «Noi comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori, e vi diciamo [ai fascisti di sinistra]: lottiamo uniti per la realizzazione di questo programma (“Stato Operaio”, agosto 1936)». Caduto il regime, Giancarlo Pajetta si occupò di reclutare fascisti, imitato più tardi dallo stesso Enrico Berlinguer, che rivolse una particolare attenzione ai giovani. All’inizio del 1947 Luigi Longo non mancò di ricevere a Botteghe Oscure eminenti personalità della Repubblica sociale pronte per la nuova esperienza.

In ogni caso, l’impressionante elenco sopra riportato ci aiuta a capire meglio la preoccupazione e la strategia del futuro Paolo VI. Andreotti conferma che nessuno degli intellettuali fascisti più eminenti passò alla Dc. «L’unico che ricordo» mi dice «è una figura minore come Mariano Pintus. Leo Longanesi, snobbato dall’intelligencija di sinistra, fece amicizia con me, ma non con il mio partito.»

 

La tragedia dell’armistizio

Dopo il 25 luglio, arrivò l’8 settembre. L’armistizio scrisse pagine tragiche e comiche al tempo stesso (purtroppo, assai più tragiche che comiche). I documenti d’armistizio furono due. Il primo, l’armistizio «corto», fu firmato il 3 settembre a Cassibile da Giuseppe Castellano, generale addetto al capo di Stato maggiore Vittorio Ambrosio, che nel gennaio 1943 aveva sostituito Ugo Cavallero, considerato troppo amico dei tedeschi. Il secondo, l’armistizio «lungo», fu firmato più di tre settimane dopo, il 29 settembre. Si è detto che il primo documento era un assegno in bianco e che nel secondo vennero aggiunte le cifre. Dopo aver firmato il primo, Castellano scoprì che il secondo prevedeva per l’Italia una resa senza condizioni. Provò a protestare, ma ormai la frittata era fatta. Se il secondo documento ridimensiona drasticamente il contributo dato alla Liberazione dalla Resistenza e da quel che rimase dell’esercito italiano, l’irresponsabile gestione del primo provocò una vera e propria tragedia nazionale.

Firmato il 3 settembre, l’armistizio fu reso pubblico l’8. Alle 19.30 di quella sera Badoglio entrò nello stesso studio radiofonico dove era stato il 25 luglio e, introdotto di nuovo da Arista, annunciò che il comandante in capo degli Alleati, Dwight Eisenhower, aveva accettato la richiesta di armistizio presentata dall’Italia. «Conseguentemente» aggiunse «ogni atto di ostilità contro le forze angloamericane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza.» Il veleno stava come sempre nella coda. Il comunicato del 25 luglio si era chiuso con la frase «la guerra continua», che aveva di fatto «autorizzato» i tedeschi a occupare l’Italia. Quello dell’8 settembre precipitò le forze armate italiane in una condizione di tragica ambiguità. Badoglio si era guardato bene dall’informare anticipatamente il governo e i ministri responsabili delle tre Armi, i quali appresero la notizia dell’armistizio dalla radio. All’alba del 9 settembre il neopresidente del Consiglio fuggì al Sud al seguito della famiglia reale, rimboccandosi le maniche della giacca per nascondere i gradi e lasciando senza istruzioni due milioni di soldati italiani: un milione in patria e un milione sparso sui fronti stranieri.

Il governo, quindi, non sapeva dell’armistizio, ma l’opposizione clandestina sì. «Me ne parlò Gonella due giorni prima dell’annuncio» mi racconta Andreotti. «Anni dopo, quando ero sottosegretario, ebbi conferma dal generale Antonio Sorice che nessuno lo aveva avvertito, pur essendo ministro della Guerra. Sorice era membro del Consiglio di Stato, e quando si trattò di promuoverlo per anzianità presidente di sezione, venne a trovarmi e mi pregò di passare al candidato successivo. “Nessuno si ricorda di me” disse “e va bene così.” Anche Castellano venne a trovarmi per ricostruire la storia dell’armistizio, che non gli dava pace. Portò con sé il carteggio con gli inglesi e le minute delle lettere dettate al suo assistente, il tenente colonnello Renato De Francesco, che sarebbe poi diventato comandante dei carabinieri. Castellano mi rivelò che nelle condizioni di armistizio era previsto che poche ore dopo l’annuncio una divisione americana aviotrasportata arrivasse su Roma. Secondo lui, non arrivò perché dal ministero della Guerra giunse un messaggio urgentissimo che pregava gli Alleati di non intervenire: l’aeroporto era occupato dai tedeschi. Bella scoperta.»

 

Gli eroi dimenticati di Cefalonia

Il re si sistemò a Brindisi, capitale di un minuscolo Regno del Sud che comprendeva anche le province di Bari, Lecce e Taranto liberate dalle truppe alleate, e proibì al principe Umberto di restare a Roma, compromettendo così definitivamente l’istituzione monarchica. Il tentativo di transizione morbida dal fascismo alla democrazia naufragò dinanzi al disastro di un esercito e di una capitale abbandonati a se stessi: a nulla valse l’eroica difesa della città a Porta San Paolo, dove militari e civili combatterono insieme e dove i lancieri di Montebello, accorsi a sostenere i granatieri, persero quasi tutti gli ufficiali.

Mille marinai morirono nell’affondamento della corazzata Roma a opera dei tedeschi, ma gli atti più eroici e misconosciuti compiuti dai soldati italiani avvennero in Grecia e in Albania. Tra l’8 e l’11 settembre, a Cefalonia il generale Antonio Gandin, comandante della divisione Acqui, tentò invano di avere da Roma disposizioni precise sull’atteggiamento da tenere con i tedeschi. L’11 arrivò l’ultimatum dell’esercito hitleriano: proseguire la guerra a fianco dei tedeschi o consegnare le armi. Gandin indisse un referendum fra i suoi uomini, la cui maggioranza decise di combattere: 1315 uomini morirono in azione, massacrati dall’aviazione tedesca; altri 5155 – tra cui quasi tutti gli ufficiali e lo stesso Gandin – furono assassinati dai tedeschi in esecuzioni sommarie. Il resto della divisione fu deportato in Germania, ma durante il viaggio circa 3000 soldati morirono sulle navi affondate dalle mine e i naufraghi superstiti furono mitragliati in acqua. Per settimane sotto assedio tedesco, i militari italiani che, agli ordini dell’ammiraglio Luigi Mascherpa, presidiavano l’isola di Lero riuscirono ad abbattere con la loro vecchia contraerea duecento apparecchi nemici prima di capitolare: solo 1500 dei 12.000 uomini che formavano il contingente sopravvissero.

In Albania il generale Arnaldo Azzi fece un referendum tra i soldati, come lo sfortunato Gandin. Tutta la divisione Firenze – 300 ufficiali e 10.000 soldati – accettò di combattere contro i tedeschi. Nei campi di concentramento nazisti, ai soldati italiani prigionieri venne fatta l’offerta di combattere per la Repubblica di Salò in cambio della libertà: accettarono in pochi. Nel 2001 Carlo Azeglio Ciampi rese onore ai caduti di Cefalonia celebrando quell’episodio come l’inizio della Resistenza italiana, ma prima d’allora sulla resistenza militare alle forze armate hitleriane era stato steso un velo di silenzio.

Quando, nel 1980, per incarico dello Stato maggiore dell’esercito, girai un documentario sull’atteggiamento dei nostri militari dopo l’8 settembre, scoprii un mondo completamente sconosciuto e raccolsi dalla voce dei superstiti – oggi quasi tutti scomparsi – testimonianze di eroismo che meriterebbero una migliore conoscenza, soprattutto da parte dei giovani. Soltanto nel 2003, nel suo libro Soldati, Carlo Vallauri ha reso giustizia alla resistenza militare. Al momento della Liberazione, accanto a circa 70.000 combattenti inquadrati nelle unità partigiane (dal 1943 al 1945 erano stati complessivamente 220.000) c’erano 99.000 soldati italiani nei gruppi di combattimento schierati al fronte con gli Alleati. Se a questi si aggiungono i 100.000 uomini inquadrati nella marina e nell’aeronautica, il numero totale dei militari che hanno partecipato in Italia alla guerra di Liberazione è quasi 420.000. Circa 200.000, fra civili e militari estranei ai reparti ordinari, erano impegnati nelle divisioni ausiliarie operanti quasi sempre sulla linea del fuoco, 66.000 erano attivi nelle retrovie a guardia della sicurezza e delle comunicazioni angloamericane, altri 65.000 uomini formavano le unità partigiane all’estero (Iugoslavia, Albania, Grecia, Francia) e 600.000 prigionieri italiani in Germania subirono vessazioni di ogni tipo per non aver voluto partecipare all’avventura di Salò, rimanendo fedeli al giuramento prestato al re. Alla fine della guerra il 40 per cento dei combattenti alleati sull’intero fronte mediterraneo erano italiani.

Quanto al numero dei morti, i partigiani civili caduti, incluse le vittime delle rappresaglie tedesche, sono ufficialmente 45.808 (65-70.000 secondo altre fonti), i membri delle forze armate 46.000, dei quali 20.000 persero la vita in battaglia l’8 settembre e 26.000 nei mesi successivi, dal riscatto del tricolore a Mignano Montelungo fino alla Liberazione. Inoltre, 40.000 italiani (di cui 7557 ebrei) morirono nei campi di deportazione e di sterminio, 80.000 soldati – tra i tanti che non vollero tradire il giuramento prestato – non fecero più ritorno dai campi in cui erano stati internati. È stato dunque calcolato in circa 215.000 il numero di italiani che morirono durante la guerra di Liberazione, senza dimenticare ovviamente il sacrificio degli 80.900 militari alleati che diedero la vita per restituirci la libertà. (Si veda il saggio di Raimondo Luraghi apparso sul numero di maggio-giugno 2004 della rivista «Nuova storia contemporanea».)

 

La Resistenza, il Pci e gli altri

Il 9 settembre 1943 nacque a Roma il Comitato di liberazione nazionale (Cln). Ne facevano parte Ivanoe Bonomi, Alcide De Gasperi per la Dc, Mauro Scoccimarro per il Pci, Pietro Nenni per il Psi, Alessandro Casati per il Pli, Ugo La Malfa per il Partito d’Azione. Palmiro Togliatti – nome di battaglia «Ercoli» – sarebbe rientrato dall’Unione Sovietica sei mesi più tardi, sbarcando a Napoli il 27 marzo 1944. Malgrado il suo arrivo fosse annunciato, i dirigenti comunisti napoletani rimasero molto sorpresi quando verso sera lo videro comparire sulla soglia della federazione. E ancor più sorpresi rimasero a Roma i maggiorenti del partito nell’apprendere che Togliatti non pretendeva affatto che il re venisse cacciato subito e che la sua linea «partecipazionista» – comunicata ai compagni nel primo congresso del Pci nell’Italia liberata, tenutosi a Napoli quattro giorni dopo – mirava all’inserimento immediato del partito ai vertici della vita pubblica, accantonando ogni utopia rivoluzionaria. Si è discusso a lungo se questa «svolta» fosse farina del sacco di Togliatti o di quello di Stalin, che si era affrettato a riconoscere il governo Badoglio. La tesi prevalente negli ultimi tempi è che la Realpolitik di Stalin sia stata decisiva.

In ogni caso fu il rientro di Togliatti a imprimere il marchio «comunista» alla lotta di Liberazione e, soprattutto, ad avviare quel processo di egemonizzazione politica della Resistenza che è stato avallato dalla storiografia italiana per almeno cinquant’anni. In realtà, alla caduta del fascismo il Pci era debole e impreparato a occupare una posizione strategica nella fase storica successiva. «La legittimazione politica del “partito nuovo” [togliattiano] si fonda indiscutibilmente sul suo ruolo nella lotta antifascista. Sin dalla “svolta di Salerno” (lì si erano trasferiti il re e il governo Badoglio) il Pci ha infatti conseguito una particolare posizione di forza all’interno stesso del vecchio Stato italiano» (Gianni Oliva, L’alibi della Resistenza). Ora, in tutti gli organismi direttivi della lotta partigiana furono presenti, fianco a fianco, i partiti democratici antifascisti. Il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (Clnai), il più attivo sul fronte militare, firmò a Roma il 7 dicembre 1944 un accordo con gli Alleati in cui si impegnava, dopo che il paese fosse stato liberato, a cedere ogni potere agli angloamericani e a «eseguire qualsiasi ordine, compresi gli ordini di scioglimento e di consegna delle armi». Il Clnai era diretto da quattro persone: Alfredo Pizzoni, il presidente, Ferruccio Parri, Edgardo Sogno e Giancarlo Pajetta. Nel suo libro «revisionista» La Resistenza cancellata Ugo Finetti ricorda come tutta la storiografia resistenziale abbia completamente «cancellato» per quasi mezzo secolo i nomi di Pizzoni e di Sogno. Il primo fu il capo del Comitato politico antifascista milanese e delle sue derivazioni in Alta Italia fin dalla caduta di Mussolini. Il secondo, medaglia d’oro della Resistenza, fu il leggendario comandante della brigata Franchi. Tra i primi a organizzare la lotta armata contro i nazifascisti, dal 1944 al 25 aprile 1945 fu il principale destinatario dei messaggi di Radio Londra.

Una pallida e tardiva testimonianza del ruolo di Pizzoni, ignorato in vita, è costituita dal libro autobiografico Alla guida del Clnai, pubblicato postumo. Nell’introduzione Renzo De Felice scrive: «Un silenzio, per non dire un ostracismo, così totale che di lui, come dirigente del movimento di Liberazione e presidente del Clnai dall’inizio sino all’insurrezione … si è persa praticamente la memoria, al punto che, allorché nel 1985 stavano preparandosi le celebrazioni del quarantesimo anniversario della Liberazione, Lord Gibson, che come ufficiale delle Special Forces inglesi aveva operato in Italia durante la Resistenza e conosceva bene la parte avuta in essa da Pizzoni, sentì il bisogno di protestare pubblicamente [la lettera di Gibson al “Corriere della Sera” non fu pubblicata]». Secondo De Felice, Pizzoni «era inviso alla sinistra per la sua posizione di indipendente e il suo atteggiamento favorevole agli Alleati» e per questo «defenestrato» dal suo incarico di «ministro delle Finanze» partigiane. Il libro di Pizzoni rivela l’enorme flusso di denaro passato per suo tramite dagli Alleati alla Resistenza: una lettera a Pietro Longhi (nome di battaglia di Pizzoni) dell’8 dicembre 1944 a firma del comando alleato impegna gli angloamericani a versare ogni mese, dal dicembre 1944 all’aprile 1945, presso il Credito italiano e la Banca commerciale a Roma 160 milioni, pari a 10 milioni di euro (20 miliardi di vecchie lire), per il finanziamento del Clnai.

Sogno – accusato nel 1975 di golpismo, arrestato a Torino per ordine dell’allora giudice istruttore Luciano Violante e assolto due anni dopo – non ha mai visto riconosciuti i propri meriti resistenziali dalla storiografia «ufficiale». Sarà un caso, ma sia Pizzoni sia Sogno erano di orientamento liberalmonarchico e, con il generale Raffaele Cadorna, erano i punti di riferimento degli Alleati nel Nord. Quando chiedo ad Andreotti come mai per circa mezzo secolo la Resistenza sia stata quasi interamente identificata con il Pci, il senatore risponde laconicamente: «I comunisti sono stati molto più bravi di noi».

Non deve sorprendere quindi che l’intero dibattito storiografico sulla Resistenza sia stato pressoché esclusivo appannaggio della sinistra. Nel suo libro già citato Oliva ricorda che nell’immediato dopoguerra le interpretazioni della lotta di Liberazione furono tre: quella comunista, proposta da Roberto Battaglia nel libro Storia della Resistenza italiana, la cui pubblicazione, secondo Finetti, ebbe addirittura l’imprimatur di Luigi Longo; quella moderata, presentata nell’opera miscellanea Il secondo Risorgimento; quella azionista, esposta da Leo Valiani nel saggio contenuto nel volume collettaneo Dieci anni dopo, 1945-1955. La tesi moderata vede nella Resistenza la lotta per la riconquista delle libertà politiche perdute, ed è quella sostenuta prima da Benedetto Croce, poi da Alcide De Gasperi, per i quali il fascismo deve essere considerato una «parentesi» autoritaria nella storia della democrazia italiana. La tesi azionista concepisce la Resistenza come «rivoluzione tradita»: dopo la Liberazione, grazie al compromesso tra cattolici e socialcomunisti rinasce il vecchio Stato prefascista. Ebbene, nei libri e nei manuali di storia di queste due tesi non c’è traccia. È rimasta soltanto la tesi comunista, che Oliva, ancorché uomo di sinistra, giudica «opera di partito»: «Essa corrisponde allo sforzo del Pci di Togliatti di accreditarsi come forza politica nazionale, dando fondamento storico a un partito dalle origini terzinternazionaliste, che da gruppo ristretto di avanguardie rivoluzionarie si è trasformato in grande partito di massa: il ruolo-guida dei comunisti all’interno di una Resistenza interpretata come manifestazione corale di popolo rappresenta il retroterra storico di legittimazione di cui il partito stesso ha bisogno». Togliatti non considerava il fascismo una parentesi nella tradizione democratica italiana, bensì «lo stadio senescente del capitalismo», come recitava la tesi della Terza internazionale.

Si è dovuto aspettare il 1991 perché – sempre da sinistra – nella monolitica interpretazione della Resistenza si aprisse una breccia. In quell’anno, infatti, Claudio Pavone pubblicò Una guerra civile, monumentale affresco di una Resistenza assai più frastagliata di quanto comunemente si pensi, combattuta in un paese diviso non solo tra Sud liberato e Nord occupato, ma tra badogliani e Alleati, comunisti e anticomunisti, e – nell’Italia settentrionale – conteso palmo a palmo da fascisti repubblicani, tedeschi della Wehrmacht, nazisti delle SS (molto divisi fra loro), Alleati che bombardavano e avanzavano, partigiani che occupavano provvisoriamente zone diverse e insidiavano le retrovie tedesche. Secondo Pavone, la Resistenza è stata al tempo stesso guerra di liberazione e guerra di classe, moralmente elitaria e numericamente minoritaria (dal 1943 al 1945, a giudizio dello storico, il numero dei partigiani non superò le 200.000 unità). Ma è stata anche guerra civile, ed è questa la definizione che ha fatto più rumore e ha orientato una parte della storiografia e della pubblicistica successive.

Guerra civile è quella che si è combattuta all’interno del popolo italiano, fra uomini e donne dagli ideali diversi, e che sono morti in virtù della scelta compiuta. La mitologia resistenziale che ha prevalso per oltre cinquant’anni opponeva due stereotipi: da un lato i comunisti, guida e forza egemone della Resistenza (sminuendo o ignorando il contributo dato da cattolici, socialisti, azionisti, liberali, monarchici, oltre che dal rinnovato esercito italiano); dall’altro, i «repubblichini di Salò», un branco di spietati assassini. Ora, se è vero che fra i sostenitori della Repubblica sociale questi non mancarono, è altrettanto vero che sotto la bandiera di Salò si arruolarono – per convinzione, o perché trascinati dagli avvenimenti e dalle vicende famigliari – decine di migliaia di giovani e di giovanissimi che consideravano il re e Badoglio dei traditori e pensavano in buona fede di servire il paese. Pur avendo commesso un tragico errore, meritano anch’essi il rispetto che soltanto oggi cominciano a ricevere. Gli assassini delle Brigate nere uccisero molti innocenti, ma molti innocenti vennero uccisi anche da assassini travestiti da partigiani, in una guerra civile sepolta nell’archivio di memorie personali che gli stessi figli delle vittime vogliono rimanga chiuso, per pudore o per non riaprire una vecchia ferita. I pochi libri sull’argomento hanno avuto una circolazione clandestina, condannati all’irrilevanza perpetua perché «di parte».

Se il riconoscimento del ruolo avuto nella Resistenza dalle forze armate – insieme con il rilancio dei valori del patriottismo – ha dovuto aspettare il viatico di un vecchio azionista come Carlo Azeglio Ciampi, il «sangue dei vinti» è rimasto nell’oblio per sessant’anni e ha avuto dignità di memoria soltanto grazie al fortunato volume di un uomo di sinistra come Giampaolo Pansa.

Anche i tedeschi non si comportarono tutti con sanguinosa e feroce brutalità, ma certo quelli che lo fecero diedero prova di una tale bestialità da cancellare d’un colpo l’umanità di altri. Valga per tutti la strage di Marzabotto, compiuta dal maggiore delle SS Walter Reder, che prima di arrivare in questo paese dell’Appennino emiliano si era lasciato alle spalle una tragica scia di sangue tra la Lucchesia e l’Emilia, compiendo massacri a Sant’Anna di Stazzema, a Valla, Vinca, Bergiola. Senza alcuna vera ragione, Reder fece ammazzare, a Marzabotto e nelle borgate circostanti, 1836 innocenti: uomini, donne e bambini d’ogni età, perfino preti sull’altare.

Il 12 agosto 2004 il ministro degli Interni tedesco Otto Schily ha partecipato con il collega italiano Giuseppe Pisanu alle celebrazioni per il 60° anniversario della strage di Sant’Anna di Stazzema (560 morti). «Questo è un giorno di vergogna» disse in italiano, giudicando deprimente per i sopravvissuti che, dopo sessant’anni, a livello giuridico si stia soltanto ora prospettando una resa dei conti con gli assassini.

 

I Gap, da via Rasella all’assassinio di Gentile

Roma fu liberata soltanto il 4 giugno 1944. «Gli Alleati in realtà sbarcarono ad Anzio il 22 gennaio» mi racconta Andreotti «ed eravamo tutti convinti che nel giro di due giorni sarebbero entrati nella capitale. Impiegarono invece quattro mesi e mezzo. Alla fine degli anni Cinquanta, quando ero ministro della Difesa, ne conobbi la ragione da fonte diretta. Venne a trovarmi il generale americano Maxwell Taylor, che avrebbe dovuto coordinare l’arrivo di una divisione aerotrasportata. Taylor mi spiegò che gli Alleati avevano l’ordine di tenere inchiodati i tedeschi ad Anzio per impedirne il ricongiungimento in Francia con le truppe che avrebbero contrastato lo sbarco in Normandia. Era una spiegazione logica, ma noi soffrimmo a lungo la presenza dei tedeschi, che a Roma fu molto dura.»

Il 22 aprile 1944 Badoglio aveva dotato il Regno del Sud del primo governo allargato ai partiti antifascisti. Togliatti ebbe un ministero senza portafoglio, come Benedetto Croce, Carlo Sforza (già ministro degli Esteri in epoca prefascista), il socialista Pietro Mancini e il democristiano Giulio Rodinò, mentre il più importante ministero politico, l’Interno, andò al democristiano Salvatore Aldisio.

Roma aspettava con angoscia la liberazione. Non essendole mai stato riconosciuto lo status di «città aperta», cioè di zona franca, i tedeschi minacciavano di farne una Stalingrado e la strage delle Fosse Ardeatine aveva precipitato la popolazione nella disperazione.

Il 23 marzo 1944 Rosario Bentivegna, studente di medicina e partigiano comunista, fece esplodere due bombe in via Rasella, non lontano da piazza Barberini, mentre passava una compagnia del battaglione altoatesino Bozen, provocando la morte di 33 soldati. L’indomani la rappresaglia tedesca fu oltremodo feroce: 335 detenuti prelevati dal carcere di Regina Coeli vennero massacrati alle Fosse Ardeatine. Tra le vittime c’erano alcuni ebrei, una trentina di militari, una quarantina di militanti comunisti, 68 membri del gruppo trockista Bandiera Rossa, 52 esponenti del Partito d’Azione e di Giustizia e Libertà. Sull’orrore dell’esecuzione condotta personalmente dal maggiore delle SS Herbert Kappler si sono versati fiumi d’inchiostro, ma non si è mai sopita la polemica sull’utilità dell’azione di Bentivegna, compiuta quando ormai era certo che Roma sarebbe stata liberata di lì a poco.

Bentivegna replica all’accusa di non essersi consegnato per risparmiare la vita di centinaia di innocenti, nonostante l’avvertimento scritto sui manifesti fatti affiggere dal comando tedesco, raccontando a Dino Messina del «Corriere della Sera» (23 febbraio 2004) di aver saputo della rappresaglia a eccidio avvenuto. Egli ha recentemente ripubblicato le sue memorie, Achtung Banditen!, per difendere un gesto a lungo contestatogli anche in sede processuale, ma è debole la risposta da lui data allo storico Aurelio Lepre il quale, nel suo Via Rasella, sulla base di intercettazioni telefoniche (una cinquantina) effettuate dopo l’attentato dalla polizia della Rsi, sostiene che l’opinione pubblica romana non approvò affatto il gesto del giovane partigiano.

«Anche il giudizio di De Gasperi sull’attentato fu negativo» mi dice Andreotti. «L’episodio di via Rasella avvenne contro il parere del Cln, che non aveva autorizzato azioni militari contro gli occupanti.» Bentivegna militava nei Gap (i Gruppi d’azione patriottica), che furono una filiazione del Pci, anche se il loro «terrorismo ribelle» provocò qualche dissenso all’interno del partito. Scrive Giorgio Bocca in Storia dell’Italia partigiana: «In realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie, per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce. I comunisti la ritengono giustamente necessaria e sono gli unici in grado di impartirla subito». (Alle azioni dei Gap, come vedremo, si ispirerà all’inizio degli anni Settanta Giangiacomo Feltrinelli.)

E furono sempre cinque gappisti ad assassinare il 15 aprile 1944 Giovanni Gentile mentre rincasava in automobile. Racconta Sergio Romano: «Il loro capo, Bruno Fanciullacci, … domandò attraverso il finestrino se egli fosse veramente il professor Giovanni Gentile. Quando Gentile annuì mise mano a una pistola ed esplose a bruciapelo alcuni colpi gridando … che egli non intendeva uccidere l’uomo ma le idee» (Giovanni Gentile). Motivazione che i terroristi degli anni Settanta e Ottanta faranno propria.

«L’Unità» di Napoli pubblicò il commento di Togliatti all’omicidio di Gentile, che veniva definito «traditore volgarissimo», «bandito politico», «camorrista», «corruttore di tutta la vita intellettuale italiana». Il segretario del Pci fece scrivere su «Rinascita»: «La sentenza di morte veniva eseguita da un gruppo di giovani generosi e la scena politica e intellettuale italiana liberata da uno dei più immondi autori della sua degenerazione. Per volere ed eroismo di popolo, giustizia è stata fatta».

Secondo Romano (e secondo Sergio Bertelli, altro autore che si è occupato della morte di Gentile alla luce di documenti inediti), Togliatti mirava a creare le condizioni per l’egemonia culturale del Pci sulla società italiana. Il che spiega anche il suo feroce accanimento contro Benedetto Croce: «Dall’idealismo gentiliano e crociano» scrive Romano «egli si apprestava a recuperare materiali importanti per la variante italiana del marxismo-leninismo … E la cultura italiana di formazione comunista sarà negli anni successivi, grazie alla strategia culturale di Togliatti, più gentiliana che crociana».

Il 6 agosto 2004, in un colloquio con Antonio Carioti per il «Corriere della Sera», Teresa Mattei – militante dal 1942 del Pci fiorentino – fece nuova luce sul delitto. Un suo fratello, Gianfranco, fu torturato dai nazisti e si suicidò nel carcere romano di via Tasso, e Gentile venne ucciso per rappresaglia. Secondo la donna, la decisione fu presa all’interno del Pci fiorentino da Bruno Sanguinetti – l’erede delle industrie Arrigoni, poi diventato suo marito –, dal capo locale del partito Giuseppe Rossi e dal notissimo archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli. Togliatti e i capi nazionali del Pci approvarono l’esecuzione soltanto a cose fatte. La Mattei racconta di essere stata lei stessa a indicare Gentile, di cui era allieva, al gruppo di fuoco di Fanciullacci. Ne ricorda l’aiuto dato agli antifascisti, il buon carattere e la generosità. Ma «se un grande pensatore si schiera con un regime orribile come la Repubblica di Salò … [compie] un tradimento che non si può perdonare».

Come vanno riconoscendo lentamente gli studiosi (il Senato gli ha dedicato diversi volumi e un convegno celebrativo nel 60° anniversario della morte), Gentile non fu per la cultura italiana un personaggio meno importante di Croce. (Anzi, l’azionista Tristano Codignola, commemorandone con sdegno l’assassinio, lo mise al primo posto. E lo stesso giudizio viene oggi dalla Mattei, che fu tra i suoi assassini.) Il filosofo ebbe il torto di essere fascista, ma la grande riforma scolastica da lui firmata come ministro dell’Educazione nazionale nel 1924 era stata concordata con Croce. L’Enciclopedia Treccani, da lui partorita, rappresentò un’opera fondamentale. Quando Gentile commise l’ultimo errore, quello di accettare dal governo di Salò la presidenza dell’Accademia d’Italia, lo fece per riscattarne le tradizioni involgarite dal fascismo e, comunque, a fini pacificatori. E quando fu ucciso, era in attesa di incontrare Mussolini per invitarlo a far cessare le violenze commesse a Firenze dalle bande nere di Mario Carità.

Il filosofo, ricorda Indro Montanelli, era stato colpito favorevolmente dalla moderazione del ministro dell’Educazione nazionale di Salò, Carlo Alberto Bigini, che aveva permesso al comunista Concetto Marchesi, latinista insigne e studioso dell’antichità classica, di restare al suo posto come rettore dell’università di Padova in nome dell’inviolabilità dell’ateneo. Eppure, pochi mesi dopo fu proprio Marchesi a sferrare un furioso attacco contro Gentile che si concludeva con una sentenza di morte, firmata dal latinista ma aggiunta – come si scoprì dopo – dal dirigente comunista Girolamo Li Causi. Marchesi, uno dei più rigidi difensori dello stalinismo, non smentì mai la paternità di quella frase per disciplina di partito, macchiandosi così di una colpa non sua.

L’assassinio di Giovanni Gentile divise profondamente il fronte antifascista. Tutti i partiti non solo censurarono l’atteggiamento del Pci, ma sottoscrissero un documento dell’azionista Enzo Enriques Agnoletti che si dissociava dall’omicidio ricordando che Gentile aveva sempre aiutato gli antifascisti. «Non era una spia, né un delatore» recitava il documento. «L’influenza culturale da lui esercitata non era contraria alla libertà.» Anche Giovanni Spadolini, allora giovane fascista allievo di Gentile, scrisse un coraggioso articolo in difesa del maestro.

 

 

Roma libera, il re lascia

«Appena gli Alleati entrarono in Roma» ricorda Andreotti «corremmo a stampare in una tipografia del Tritone il primo numero del “Popolo” distribuito legalmente. Poi ci trasferimmo alla tipografia del “Giornale d’Italia” dove anche i liberali stampavano il loro giornale. C’erano Guido Gonella, Giovanni Sangiorgi, Giorgio Ceccherini, Emilio Trabucco e Franco Nobili, che il giorno stesso della liberazione andò con Spataro in piazza del Gesù a occupare palazzo Cenci Bolognetti, rimasto poi per cinquant’anni la sede della Dc (da quando il mio partito ha cambiato nome, nel 1994, non ci ho più messo piede).» I democristiani avevano adocchiato da tempo il bellissimo edificio gentilizio appartenuto alla famiglia di Beatrice Cenci. «Un lascito l’aveva destinato all’università di Roma» mi dice Andreotti «ma qualcuno che lavorava lì ce lo aveva segnalato e noi lo prendemmo in affitto.»

All’indomani della liberazione di Roma, il 5 giugno, Vittorio Emanuele III fu costretto a cedere i poteri al figlio Umberto, nominato «luogotenente del Regno». Avrebbe voluto firmare solennemente l’atto al Quirinale, ma non gli fu consentito di rientrare a Roma. Si rassegnò e si mise a raccogliere documenti nella speranza di accreditarsi il merito della fine del regime fascista, ma tutto ciò gli sarebbe servito a poco.

Badoglio presentò le dimissioni al luogotenente nella ferma convinzione che sarebbero state respinte, ma nel frattempo gli americani avevano deciso di cambiare cavallo. Gli uomini del Cln non avevano alcuna voglia di lavorare con quell’ambiguo generale e la spuntarono, nonostante Churchill non nascondesse la sua profonda disistima per la nuova classe dirigente. «Accompagnai De Gasperi all’incontro con Badoglio» ricorda Andreotti «e lui non si aspettava la liquidazione. Parlava in piemontese con Togliatti…»

Toccò a Ivanoe Bonomi formare il nuovo governo, una coalizione formata da tutti i partiti antifascisti. (Nei mesi successivi, però, si assistette a una profonda divisione della sinistra, una costante della vita politica italiana. Infatti, nel secondo governo Bonomi entrarono De Gasperi, Togliatti e Saragat, ne rimasero fuori Nenni e La Malfa. «I repubblicani-azionisti» continua Andreotti «non parteciparono perché non volevano collaborare con la monarchia. Togliatti giurò che, se non fosse entrato Nenni, non sarebbe entrato neppure lui: “Quel che faranno i compagni socialisti faremo noi” disse solennemente la sera uscendo dal palazzo dei Marescialli, sede dei ministri senza portafoglio, mentre il leader comunista aveva lo studio accanto a quello di De Gasperi. La mattina dopo lui era nel governo e Nenni no.» È utile rammentare che in quegli anni il segretario del Psi contestava da sinistra Togliatti: non gli piaceva il realismo politico del leader comunista.)

Soltanto Bonomi giurò nelle mani di Umberto, «ma non avendo il permesso alleato di insediarsi a Roma» ricorda Andreotti «dovette ripartire subito per Salerno», da dove sarebbe tornato soltanto a fine luglio.

Il 6 giugno era avvenuto lo sbarco in Normandia, decisivo per le sorti della guerra. Parigi veniva liberata il 25 agosto. In Italia la Resistenza si faceva più attiva sull’Appennino e cominciava la resa dei conti con la Repubblica di Salò.

 

Mussolini e Claretta a piazzale Loreto

Nel frattempo Mussolini aspettava la propria fine, sperando di essere arrestato dagli Alleati. Quando, il 12 settembre 1943, vide la «cicogna» del capitano Otto Skorzeny planare dinanzi all’albergo di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, dove Badoglio lo aveva spedito perché la considerava la più sicura delle prigioni, sperò che l’equipaggio non fosse tedesco. Gli si strinse il cuore dinanzi all’evidenza. Da quel momento il Duce cambiò carceriere, passando sotto la custodia di Hitler. Da Monaco il Führer lo rispedì in Italia a vendicare l’alleanza tradita l’8 settembre e, soprattutto, a mascherare politicamente, con il paravento della Repubblica di Salò, la brutalità dell’occupazione tedesca e a rallentare per quanto possibile l’avanzata degli Alleati verso Nord.

Il discorso tenuto da Mussolini al teatro Lirico di Milano il 16 dicembre 1944 dimostrò che egli era ormai soltanto l’ombra di se stesso. Il 25 aprile 1945 ebbe un abboccamento con il cardinale Schuster, la cui autorità aveva risparmiato tanti orrori ai milanesi. Forse voleva arrendersi: se avesse chiesto asilo al cardinale, questi avrebbe potuto patteggiarne una consegna «ufficiale» alle autorità politiche della Resistenza.

Nella sede dell’arcivescovado Mussolini incontrò Riccardo Lombardi e Raffaele Cadorna, il generale che comandava l’apparato militare del Cln pur senza averne il totale controllo («Fu inviato dagli Alleati nel Nord» disse Longo «con il preciso compito di controllare e contenere il movimento partigiano»). Secondo lo storico Richard Lamb, Cadorna disse al Duce che il Cln poteva garantirgli soltanto un «regolare processo». Poco prima di morire, Leo Valiani, storico azionista e senatore a vita della Repubblica italiana, rivelò a Marino Viganò che Mussolini voleva arrendersi al Partito d’Azione e al Partito socialista, e parlò dell’esistenza di un piano che prevedeva la custodia del Duce da parte della guardia di finanza in attesa della consegna agli americani. Mussolini avrebbe accettato il processo, ma temeva che la giustizia sommaria dei comunisti gli avrebbe impedito di arrivarvi. Perciò prese tempo, illudendosi di avere ancora qualche carta da giocare con gli Alleati. Fu scoperto dai partigiani il 27 aprile 1945 a Dongo, travestito con pastrano ed elmetto tedeschi, in una colonna di soldati della Wehrmacht in marcia verso nord. Nel dopoguerra Valiani disse a Massimo Pini che la decisione di fucilare Mussolini senza processo venne presa da lui, dai comunisti Luigi Longo ed Emilio Sereni e dal socialista Sandro Pertini, mentre Cadorna, favorevole al processo, non fu interpellato.

Sulla sorte di Mussolini, gli Alleati erano divisi. Fin dal 1942 gli americani pensavano a una Norimberga che vedesse sul banco degli imputati, uno accanto all’altro, Hitler e Mussolini. Gli inglesi, secondo Renzo De Felice, volevano invece la morte del Duce, temendone le rivelazioni sui rapporti con Churchill, che furono stretti e compromettenti. Forse non è un caso se il misterioso e fondamentale carteggio tra i due statisti non è mai stato rinvenuto. Un processo a Mussolini avrebbe poi evidenziato le responsabilità di Vittorio Emanuele III e compromesso irrimediabilmente ogni speranza di sopravvivenza dell’istituzione monarchica. Anche i comunisti non volevano che il Duce finisse nelle mani degli americani. Nel 1997 gli storici Elena Aga-Rossi e Victor Zaslavsky trovarono negli archivi del Pcus a Mosca il rapporto sulla fine di Mussolini scritto da Togliatti per Stalin in cui si conferma che la decisione di giustiziarlo fu presa da Longo per evitare il processo voluto dagli Alleati.

L’esecuzione fu affidata a un partigiano comunista cui gli stessi compagni riconoscevano determinazione e brutalità: Walter Audisio, il «colonnello Valerio». Questi raccontò di avere ucciso Mussolini con cinque colpi di mitra. Fonti diverse sostengono che Audisio fu coadiuvato nell’esecuzione da un altro partigiano comunista, Aldo Lampredi. Nel già citato La Resistenza cancellata Finetti ricorda una terza tesi: secondo il comandante partigiano Urbano Lazzaro, che catturò Mussolini, il Duce sarebbe stato ucciso personalmente da Luigi Longo.

Nell’estate del 2004 si affacciarono nuove ipotesi su chi avesse ucciso Mussolini. Sul «Corriere della Sera» del 31 luglio 2004 lo storico Giuseppe Vacca rivelò che Walter Audisio aveva consegnato al comitato centrale del Partito comunista albanese il mitra con il quale era stato ammazzato il Duce. «A testimonianza della mia profonda ammirazione per l’eroico popolo albanese» scriveva Audisio nella motivazione «vi invio in dono l’arme con la quale, il 28 aprile 1945, venne giustiziato il criminale di guerra Benito Mussolini, per ordine del Comando Generale dei Partigiani italiani.»

Il 30 agosto 2004, nel programma di Raitre «Enigma» condotto da Andrea Vianello, l’ex partigiano Bruno Giovanni Lonati disse di essere stato lui a sparare a Mussolini e aggiunse che Claretta Petacci sarebbe stata uccisa da un agente dei servizi segreti inglesi alla caccia del carteggio tra Churchill e Mussolini. L’ipotesi, già avanzata in un suo libro del 1994 (Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta. La verità), non fu giudicata credibile dagli storici.

La «pista inglese» è del tutto inverosimile, confermò il 30 agosto 2004 sul «Corriere della Sera» un altro ex partigiano, Renato Morandi. «L’eliminazione di Mussolini» racconta quest’ultimo «fu ordinata dal Cln. L’incarico di eseguirla fu dato a un gruppo di partigiani guidati da Walter Audisio, il colonnello Valerio. Ma Audisio era un pasticcione. Forse non aveva mai sparato prima. La sua arma si inceppò. Michele Moretti [un meccanico del Comasco che poi riparò in Iugoslavia] stava a una ventina di metri di distanza a bloccare la strada. Si rese conto di quello che stava accadendo. Si precipitò e fece fuoco col suo mitra. Uccise prima la Petacci e poi Mussolini.» Scrisse Marco Nese sul «Corriere»: «Morandi è una persona credibile. È stato lui qualche anno fa a raccontare la terribile verità sulla fine dei partigiani Gianna e Neri. “Due persone oneste” disse Morandi “che volevano consegnare all’erario il malloppo trovato a Mussolini, il famoso oro di Dongo. Il Partito comunista se lo voleva tenere e fece eliminare prima Neri l’8 maggio 1945 e poi Gianna il 23 giugno”».

Non furono risparmiati neppure i compagni di viaggio, prima fra tutti Claretta Petacci, l’amante che si ostinò a restare con lui e, al momento dell’esecuzione, cercò di fare scudo con il proprio corpo a Mussolini. I cadaveri del Duce, della Petacci e dei gerarchi fascisti furono appesi l’indomani alla pensilina di un distributore di benzina di piazzale Loreto a Milano dove un anno prima le Brigate nere avevano esposto i corpi di alcuni partigiani.

«Fummo molto turbati da quella macabra esposizione» ricorda Andreotti. «Spataro, in particolare, deplorò tanta ferocia. Alla fine di aprile il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia aveva preso Milano, ma ci vollero parecchi mesi per ricongiungerlo al Cln basato a Roma. Il Cnlai aveva una fisionomia più militare, il Cln romano più politica. A Roma, l’arrivo di Togliatti dopo la “svolta di Salerno” procurò una forte virata politica.»

Rientrato da Mosca, il leader comunista – contro le aspettative dei suoi stessi compagni – antepose l’unità nazionale ai sentimenti antimonarchici, accettò di rinviare alla fine della guerra la questione istituzionale e collaborò con il Regno del Sud, prima con Badoglio e poi con Bonomi.

«La disponibilità di Togliatti a entrare nel governo cambiò completamente i piani del Cln» mi dice Andreotti. «Ricordo che quando la carovana di Badoglio rientrò a Roma, si riunì al Grand Hotel occupato da ufficiali angloamericani. Il personale si dedicava soltanto a loro, trascurando del tutto i politici italiani, che furono relegati in una saletta del pianterreno.»

 

Quando Togliatti disse ad Andreotti…

A metà giugno 1945 Bonomi fu sostituito alla guida del governo da Ferruccio Parri. Poiché l’assenza di Nenni e dei repubblicani dall’esecutivo si era fatta sentire, si decise di farli rientrare. «Togliatti non amava i repubblicani» confessa Andreotti. «Durante una riunione in cui ero seduto accanto a lui, mentre parlava il repubblicano Oliviero Zuccarini, diede segni di insofferenza tamburellando sul tavolo con il lapis. “Piccoli partiti, piccole idee” mi disse.»

I repubblicani militavano nel Partito d’Azione, e tutto si può dire di Parri, che ne era il capofila, tranne che avesse piccole idee. Ne aveva di troppo elitarie, semmai, come sottolinea in L’Italia del Novecento, scritto con Mario Cervi, lo stesso Montanelli, che pure ha sempre simpatizzato con quella parte politica. (Molti anni più tardi Ugo La Malfa gli avrebbe offerto un seggio da senatore, che il giornalista rifiutò, consigliando di assegnarlo a Giovanni Spadolini.) «Parri» scrive Montanelli «rappresentava un movimento, la Resistenza, che era stato intessuto anche di fatti memorabili, ma che ora, usucapito dai partiti di sinistra e rivendicato da un esercito di militanti dei quali non si era vista traccia nella lotta vera, stava diventando la solita oceanica sceneggiata italiana: in definitiva divenne un simbolo fazioso del vento del Nord, visto come premessa della bufera rivoluzionaria.»

Nel governo, Parri tenne l’Interno, assegnò a Nenni una vicepresidenza, a De Gasperi gli Esteri, a Togliatti la Giustizia, divise i dicasteri economici tra un liberale (Marcello Soleri, al Tesoro) e un comunista (Mauro Scoccimarro, alle Finanze). Il democristiano Gronchi ebbe il Lavoro e il repubblicano La Malfa i Trasporti. Il nuovo presidente del Consiglio detestava la monarchia, e poiché il referendum istituzionale si sarebbe tenuto a metà del 1946, i liberali – di spiccate simpatie monarchiche – aprirono la crisi di governo perché non si fidavano di lui.

Due settimane prima del Natale 1945, Alcide De Gasperi entrava così per la prima volta da titolare al Viminale, sede della presidenza del Consiglio, che soltanto più tardi si sarebbe trasferita a palazzo Chigi, sede degli Esteri durante il fascismo. De Gasperi tenne gli Esteri e confermò gli altri ministri dei dicasteri più importanti. Da Guardasigilli Togliatti avrebbe varato un’ampia amnistia per evitare che sotto la mannaia del collaborazionismo fascista cadesse praticamente l’Italia intera. «L’amnistia fu così ampia» ricorda Andreotti «che ne furono esclusi quasi soltanto quelli accusati di “efferate sevizie”. Anche le sevizie semplici furono perciò abbonate. Un giorno dissi a Togliatti: “Stiamo processando persone accusate di avere avuto incarichi di responsabilità nel partito unico. Ma nell’Unione Sovietica non c’è un solo partito?”. “Nell’Urss” mi rispose “il partito unico è frutto della sintesi di una volontà collettiva di intellettuali, militari, kolkosiani.” Eppure, un giorno egli volle darmi un segnale di come funzionassero le cose da quelle parti. “Quando ero vicesegretario del Comintern [godendo della fiducia di Stalin, Togliatti giunse ai vertici della Terza internazionale comunista e vi rimase dal 1934 al 1943]” mi raccontò “fui mandato in Mongolia al congresso del partito comunista locale, il cui leader era malato e ricoverato a Mosca. Prima di partire andai a trovarlo e portai in Mongolia un suo messaggio. Negli anni successivi ricevetti attraverso gli uffici altri suoi messaggi da trasmettere ai comunisti mongoli. Seppi più tardi che quel signore era morto subito dopo il nostro primo incontro. Per altre due volte, dunque, avevo trasmesso messaggi di un morto.»

Perché Togliatti confidava a un avversario questi dettagli? «Alcuni lo accusavano di non aver aiutato i prigionieri italiani in Russia, altri sospettavano che li avesse indottrinati. Raccontandomi l’episodio della Mongolia, forse voleva farmi capire che in fondo era soltanto un funzionario di partito senza troppe responsabilità.»

 

Umberto al posto di Vittorio Emanuele

Vittorio Emanuele III abdicò il 9 maggio 1946, nell’estremo tentativo di salvare la monarchia. Sedeva sul trono dal 1900, da quando suo padre Umberto I era stato ucciso a Monza dall’anarchico Gaetano Bresci. Il 25 luglio 1943 aveva dato manforte ai fascisti che si sbarazzarono del Duce, ma se il Duce era diventato tale, buona parte della responsabilità era stata sua. «Vittorio Emanuele III fu l’unica persona di cui De Gasperi mi parlò con disprezzo» ricorda Andreotti. «Quando, dopo il delitto Matteotti, tre parlamentari dell’Aventino andarono a chiedergli aiuto, lui li ascoltò freddamente per venti minuti e alla fine li liquidò dicendo: “Riferirò al capo del governo”.»

Nell’atto di abdicazione il re ripeté la formula usata dal suo avo Carlo Alberto che, dopo le sconfitte di Custoza e di Novara del 1849, lasciò il trono al figlio Vittorio Emanuele II. Carlo Alberto era spirato pochi mesi dopo a Oporto, in Portogallo. Un secolo dopo, Vittorio Emanuele III morì, a pochi mesi dall’abdicazione, ad Alessandria d’Egitto. Il 9 maggio 1946, al tramonto, si imbarcò dopo aver lasciato villa Rosebery, la residenza reale a Napoli. «Alle 18» racconta il suo fedele aiutante di campo, Paolo Puntoni, «appare nelle acque di Posillipo il cacciatorpediniere Granatiere. Alle 19 appare il Duca degli Abruzzi. Due motoscafi attendono le Loro Maestà e il seguito, attraccati al piccolo molo di Villa Maria Pia. Soltanto verso le 19, quando il Sovrano viene sulla terrazza insieme con l’ammiraglio De Courten per osservare le navi che si avvicinano, posso parlargli. Il suo viso è impenetrabile. Non profferisce una parola che denoti debolezza e rimpianto … Re Umberto è fermo sulla riva e osserva l’imbarco degli Augusti Genitori. Alle 19.40 l’incrociatore leva l’ancora e si muove lentamente. Inizia il viaggio che porta il Re verso l’esilio. Non si sente una voce. Si sente soltanto il silenzio» (Montanelli e Cervi, L’Italia della guerra civile).

Andreotti ebbe rapporti cordiali con Umberto, che tenne un comportamento corretto, prima e dopo il referendum, nonostante la data del 2 giugno 1946 fosse troppo vicina a quella dell’abdicazione del padre per far dimenticare le responsabilità di Vittorio Emanuele III e apprezzare la diversa natura del figlio. Nella sua ormai datata Storia d’Italia 1861-1969 Denis Mack Smith fa tutto un fascio del vecchio re e del suo erede. Del primo dice (correttamente) che, se avesse abdicato nel 1943, avrebbe salvato l’istituzione monarchica; del secondo scrive: «Scaricò senza esitazioni la colpa degli avvenimenti del 1922 sul popolo italiano, affermando imprudentemente in pubblico che era stato l’entusiastico appoggio dato da questo al fascismo che aveva costretto il re a rassegnarsi alla nomina di Mussolini».

Se studi recenti hanno riconosciuto a Umberto «un atteggiamento di sfumato antifascismo» (Paolo Colombo, in Dizionario del fascismo), già nel Diario di Galeazzo Ciano viene evidenziato l’atteggiamento apertamente ostile ai tedeschi dell’allora principe di Piemonte, del tutto contrario all’entrata in guerra dell’Italia. Un ampio studio di Francesco Perfetti, apparso sul numero di settembre-ottobre 2002 di «Nuova storia contemporanea», alla luce di colloqui inediti di Umberto con il giornalista Luigi Cavicchioli sottolinea due punti rimasti tuttora non approfonditi: il tentativo operato da Mussolini di coinvolgere nel suo primo governo Giovanni Amendola, poi suo strenuo oppositore e capofila dell’Aventino; la proposta fatta da Vittorio Emanuele a Ciano già nel 1940 di convocare il Gran Consiglio del fascismo per mettere in minoranza Mussolini. Questo progetto sarebbe fallito perché il re aveva poi cercato una transizione morbida e costituzionalmente corretta che non facesse gridare al colpo di Stato.

Tuttavia, Umberto ha cura di non smentire il padre sulle due decisioni più controverse del suo regno: l’affidamento dell’incarico ministeriale a Mussolini nel 1922 e la fuga a Pescara nel 1943. Sul primo punto, il «re di maggio» attribuisce la decisione «costituzionale» del padre all’impossibilità di mettere d’accordo i socialisti di Turati, i liberali di Nitti e i cattolici di Sturzo per dare vita a una maggioranza parlamentare dopo le elezioni del 1919 (fu il grosso guaio del nuovo sistema proporzionale); al fallimento di Giolitti; alle stragi (350 morti) durante la campagna elettorale del 1920; al successo del «Blocco nazionale» di Mussolini, che associò vecchi democratici come Facta e Salandra guadagnando 47 deputati contro i 230 liberaldemocratici, i 120 socialisti, i 100 popolari; al fallimento di Orlando e, per la seconda volta, di Giolitti; alla rinuncia all’incarico di primo ministro del cattolico Filippo Meda; al fallimento di Bonomi appoggiato da Turati; alla debolezza del governo Facta, che non seppe opporsi alle violenze degli squadristi; al parere dei capi militari e dell’esercito, secondo i quali solo Mussolini avrebbe riportato l’ordine. Poi ci fu la farsa della «marcia su Roma», durante la quale il re e il governo non ordinarono all’esercito di sparare o almeno di impugnare le armi malgrado Mussolini avesse ordinato ai suoi di non resistere e di «offrire il petto alle raffiche». Ma qui Umberto osserva che, alla fine, furono i partiti – stremati – a rassegnarsi all’esperimento fascista, con tanto di pubblico viatico offerto da Nitti, Giolitti e Croce. Fatto sta che, pur disponendo soltanto di 47 deputati, Mussolini ottenne dalla Camera la fiducia con 306 voti favorevoli e 116 contrari.

Nelle elezioni del 1924, grazie alla legge maggioritaria di Acerbo (premio di due terzi dei seggi al partito di maggioranza relativa), la «Lista nazionale» di Mussolini – corroborata da Orlando, De Nicola, Salandra e sostenuta da Croce – razziò 374 deputati lasciandone soltanto 161 alle opposizioni (i popolari, con 39 parlamentari, erano il partito maggiore). In un articolo pubblicato sul numero dell’agosto 2003 del mensile «Millenovecento» Emilio Gentile ha sostenuto che il totalitarismo di Mussolini cominciò proprio con la legge Acerbo. Pur riconoscendo l’abilità del Duce nel seminare confusione ai vertici dello Stato, costringendo il re a dargli l’incarico nel 1922 e gran parte dei democratici a votarlo, Gentile ricorda che «per la prima volta nella storia delle democrazie liberali europee, il governo era affidato al capo di un partito armato che si era imposto con la violenza, ripudiava apertamente la democrazia liberale e proclamava la sua volontà rivoluzionaria di trasformare lo Stato liberale in uno Stato integralmente fascista».

Dal 1924 non si votò più e l’episodio dell’incontro del re con i deputati dell’Aventino raccontato da Andreotti dimostra ormai da che parte stesse il sovrano.

Sulla «fuga di Pescara», invece, Umberto riconosce: «Peccammo di ingenuità e di faciloneria» dando credito, fra l’altro, «a uno sbarco alleato a nord di Roma prima che fosse annunciato il nostro armistizio», ma ritiene che «la partenza fosse una necessità assoluta … per garantire a ogni costo la continuità dello Stato».

 

L’Italia diventò una repubblica

Benché non potesse fare una campagna elettorale vera e propria in favore della monarchia, prima del referendum Umberto girò l’Italia in lungo e in largo arrivando a toccare negli ultimi dieci giorni Milano, Torino, Genova, Venezia, Napoli, Reggio Calabria, Palermo e Catania. Al Sud fu accolto con entusiasmo, al Nord con palpabile freddezza.

Si andò al voto tra le polemiche: i monarchici non accettavano l’esclusione dalle urne dei cittadini della Venezia Giulia, che non potevano votare perché in quella zona non era ancora stata ripristinata l’autorità italiana. I primi risultati sembravano assegnare la vittoria alla monarchia. Andreotti seguì lo spoglio dal Viminale, nell’ufficio accanto a quello di De Gasperi. «La rete telefonica era completamente scassata» mi racconta «e le comunicazioni arrivavano a singhiozzo. Se dalla provincia di Siracusa, considerata monarchica, giungeva notizia di un risultato inatteso per la repubblica, si riteneva che questa stesse vincendo. E il contrario se dal Nord ci veniva comunicato un risultato migliore per la monarchia. Ogni tanto De Gasperi mandava al Quirinale una piccola nota con gli aggiornamenti.»

I contatti tra il governo e il re avvenivano attraverso il ministro della Real Casa, il marchese socialista Falcone Lucifero, che ancora quarant’anni dopo, quando l’ho conosciuto, era intento a riordinare diari e documenti non rassegnandosi al risultato elettorale. L’altalenarsi delle notizie tenne tutti svegli nella notte fra il 3 e il 4 giugno. E la mattina del 4 De Gasperi scrisse a Lucifero una breve lettera che aprì il cuore dei monarchici alla speranza: «Signor ministro, le invio i dati pervenuti al ministero dell’Interno fino alle 8 di stamane. Come vedrà, si tratta di risultati assai parziali che non permettono nessuna conclusione. Il ministro Romita considera ancora possibile la vittoria repubblicana. Io personalmente non credo che si possa – rebus sic stantibus – giungere a tale conclusione».

Giuseppe Romita era un socialista piemontese della provincia di Alessandria e i monarchici lo hanno sempre accusato di brogli ai loro danni nel referendum del 1946, di cui però non si è mai avuta documentazione e ai quali Andreotti dice di non credere. Il ministro dell’Interno sostenne di essersi coricato per qualche ora con la monarchia in vantaggio e di essersi svegliato con la vittoria della repubblica. Mentre dormiva, era spuntato un milione tondo tondo di voti repubblicani. «Li ha nascosti nel cassetto» gridarono i monarchici. «Sono frutto dell’arrivo a singhiozzo dei risultati» replicavano dall’Interno.

Alla fine la repubblica vinse per 2 milioni di voti. I risultati del referendum furono proclamati dalla Cassazione nella seduta del 10 giugno: 12.717.923 voti contro 10.719.284. Nel dare l’annuncio solenne nella sala della Lupa a Montecitorio, il primo presidente della Cassazione Giuseppe Pagano aggiunse una frase sibillina che Andreotti ricorda a memoria: «Questa Corte in altra seduta darà conto dei ricorsi nel frattempo pervenuti».

«Tutto era predisposto perché il re lasciasse il Quirinale nel massimo ordine» ricorda il senatore «e quella frase di Pagano ci lasciò nel disorientamento totale. Accompagnai subito De Gasperi al Quirinale e lo vidi uscire sereno dal colloquio con Umberto. Mi riferì che il re gli aveva detto: avrò certamente pressioni per resistere, ma mi lasci qualche giorno di tempo per sistemare le cose e non ci saranno problemi. De Gasperi, per evitare equivoci e incidenti, non riferì questa frase nemmeno ai suoi colleghi di governo. Intanto Vittorio Emanuele Orlando e Meuccio Ruini avevano fatto pressioni sul sovrano perché attendesse il responso definitivo della Cassazione.»

Falcone Lucifero ha trascritto nei suoi diari una versione più tempestosa e probabilmente più realistica di quelle ore. Secondo il ministro della Real Casa, la notte del 10 giugno De Gasperi tentò inutilmente di convincere il re che il Consiglio dei ministri considerava ormai acquisita la vittoria repubblicana. L’indomani il presidente del Consiglio invitò Umberto a firmare una delega reale che gli assegnava i poteri di capo provvisorio dello Stato. Orlando, Bonomi e Nitti – i tre grandi vecchi consultati da Lucifero – espressero tre pareri diversi. De Gasperi sostenne di essere ormai capo dello Stato, la Corona voleva aspettare la proclamazione ufficiale della Cassazione, mentre nel paese cominciavano a verificarsi incidenti e si segnalavano un paio di morti a Napoli. «Il re» ricorda Andreotti «disse a De Gasperi che si sarebbe allontanato da Roma in attesa del verdetto finale. De Gasperi rispose che il Consiglio dei ministri era contrario, ma ebbe l’impressione che il sovrano non insistesse più di tanto.» Il ricordo di Lucifero è esattamente opposto: sarebbe stato De Gasperi a premere perché il re se ne andasse.

 

E i monarchici gridarono ai brogli

La sera del 12 giugno 1946 il Consiglio dei ministri, in un documento cauto e anodino che lasciava qualche margine per un’eventuale retromarcia, stabiliva che nella situazione transitoria che si era venuta a creare le funzioni di capo dello Stato venissero assunte dal primo ministro. Ancora recentemente, nel già citato articolo apparso su «Nuova storia contemporanea», Francesco Perfetti ha giudicato illegale tale procedura: i monarchici parlarono di «colpo di Stato» e Umberto tolse all’ultimo istante la frase di denuncia dal suo proclama agli italiani, di cui parleremo tra poco.

Pur restando a Roma in casa di amici, il re si era allontanato dal Quirinale, dove rientrò alle 15.30 di giovedì 13 giugno per far ammainare la bandiera dei Savoia dal torrino del palazzo e prendere commiato dal personale di servizio. L’Italia diventava una repubblica. Poco dopo Umberto lasciava per sempre il paese a bordo di un aereo Savoia-Marchetti diretto in Portogallo, dove fin dal giorno 6 si erano trasferiti la moglie Maria José e i figli.

Prima di partire, il re firmò un proclama agli italiani e ordinò che fosse diffuso a tarda sera, quando il suo aereo sarebbe stato ormai lontano dall’Italia. Riferendosi alla decisione del Consiglio dei ministri di assegnare a De Gasperi le funzioni di capo dello Stato, Umberto scriveva: «In spregio alle leggi e al potere sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza». Di qui la decisione di partire «nel supremo interesse della patria». Subito dopo la radio trasmise un messaggio altrettanto secco di De Gasperi. «Ascoltando quei testi» mi dice Andreotti «si aveva l’impressione dello scontro fra due nemici. In realtà, fin dalle cinque del pomeriggio, subito dopo la partenza del re, il suo aiutante di campo in seconda, ammiraglio Garofalo, mi aveva chiamato trasmettendomi il resto del messaggio reale in modo che De Gasperi potesse preparare la sua risposta.»

Il ricorso sui presunti brogli elettorali che aveva determinato tante tensioni era stato presentato dal giovane diplomatico monarchico Enzo Selvaggi e riguardava le schede bianche e nulle, il cui numero fu enorme: 1.509.735. In un articolo pubblicato dal quotidiano romano «Il Tempo» il 3 novembre 1983, l’ex presidente della Repubblica Giovanni Leone scrisse che nel referendum istituzionale «le schede bianche non erano state computate come espressione di voto, mentre con l’opposto criterio avrebbe prevalso il responso monarchico». Falcone Lucifero drizzò le orecchie e chiese chiarimenti. Ne nacque un complicato dibattito: sotto il profilo giuridico, in effetti, le schede bianche e nulle avrebbero dovuto essere conteggiate per definire il quorum, anche se, in linea di fatto, la repubblica avrebbe vinto ugualmente, sia pur per un soffio. Come rivelò lo stesso presidente della Cassazione, Pagano, il vantaggio finale per la repubblica sarebbe stato di soli 250.251 voti.

In ogni caso, il 18 giugno 1946 la Cassazione respinse il ricorso di Selvaggi con dodici voti contro sette. Il procuratore generale Massimo Pilotti era favorevole all’accoglimento del ricorso e, quattordici anni più tardi, anche Pagano rivelò di aver votato in tal senso.

La repubblica, dunque, vinse a pieno titolo, ma Perfetti ha fatto propria la tesi di possibili irregolarità: «La proclamazione dei risultati avvenne sulla base dei verbali pervenuti dai trentuno uffici circoscrizionali, ma molti di essi erano irregolari e in molti casi non erano accompagnati da pacchi con le schede annullate». Si è detto che De Gasperi fosse monarchico, ma che abbia votato per la repubblica. «Ha votato certamente per la repubblica» conferma Andreotti. «Me lo ha ripetuto spesso nel corso degli anni. Era tuttavia molto preoccupato per il tipo di repubblica che sarebbe stata instaurata in Italia. In alcuni momenti ha temuto un regime molto condizionato dalla sinistra, una sorta di repubblica popolare che travolgesse il nostro ordinamento giuridico e ne mettesse in discussione la stessa continuità.»

Capo dello Stato ad interim per decisione del Consiglio dei ministri, De Gasperi diventava l’uomo politico italiano più importante grazie ai voti ricevuti nelle elezioni per l’Assemblea costituente: il 35,2 per cento contro il 20,7 dei socialisti di Nenni e il 19 dei comunisti di Togliatti.

Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi
titlepage.xhtml
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_000.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_001.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_002.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_003.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_004.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_005.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_006.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_007.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_008.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_009.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_010.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_011.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_012.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_013.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_014.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_015.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_016.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_017.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_018.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_019.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_020.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_021.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_022.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_023.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_024.htm
Bruno Vespa - Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi_split_025.htm